CECI N’EST PAS UNE TABLE – Alberto Fiz –

La fine degli anni Novanta, ormai è noto, è stata caratterizzata dall’identificazione del corpo fisico con il corpo dell’arte.
Il corpo manipolabile è diventato, nelle mani dell’artista-creatore, il luogo dell’indagine e della trasformazione. Ingegneria genetica, clonazione, piercing, chirurgia plastica, sono tutti processi che hanno portato ad un superamento dei concetti di naturalità tradizionali per arrivare ad una sorta d’identità nomadica, dove il corpo è un elemento del processo creativo, luogo della sperimentazione e del conflitto, dell’artificialità e della sfida.

Il soggetto, dunque, sembra fluire nel cosmo e diventa lo strumento attraverso cui affrontare una realtà in progressiva trasformazione.
“L’evoluzione del genere umano sta inaugurando una nuova fase che Charles Darwin mai avrebbe ipotizzato. Le potenzialità insite nella ricostruzione genetica possono velocemente proiettarci oltre la naturale evoluzione darwiniana in un regno evolutivo artificiale. La nostra società accederà presto alla sfera biotecnologica che ci consentirà di scegliere direttamente il modo nel quale avvenga l’evoluzione futura delle speci viventi”, ha scritto nel 1992 Jeffrey Deitich introducendo il catalogo di “Posthuman”, una mostra che ha fatto epoca tanto da dar vita ad un preciso filone d’indagine.
Da Jeff Koons a Paul McCarthy, da Cindy Sherman a Matthew Barney, da Yasumasa Morimura a Kiki Smith, sono molti coloro che sviluppano un’estetica che parte dalla riformulazione della sfera fisica e sensoriale.
In questo contesto và analizzato il lavoro di Giovanna Torresin, sebbene, prima di trarre conclusioni avventate, vadano fatte alcune precisazioni.
Se il “Posthuman” o la linea lanciata da Charles Saatchi con la sua mostra “Sensation” rischiano, talvolta, di trasformarsi in un cliché spettacolare e dominato dall’ingenua volontà di ottenere un effetto shock, l’artista lombarda si muove in un contesto autonomo dove la rielaborazione della fisicità non è fine a se stessa, ma risponde ad una precisa esigenza di carattere etico in cui l’aspetto fisico si concilia con quello psicoanalitico.

L’opera di Giovanna Torresin nasce dalla proiezione del proprio corpo nella sfera dell’inconscio ed è proprio questa componente a renderla così autentica agli occhi dello spettatore. Sia che utilizzi la scultura, le installazioni o le immagini fotografiche, l’artista non opera sul soggetto, ma sulla drammatizzazione dell’oggetto che assume una precisa identità fisica. E’ il tavolo la metafora ossessiva su cui Giovanna Torresin agisce lavorando sull’interferenza che ostacola l’armonicità dei corpi.
Nella sua opera non c’è il desiderio di andare incontro ad una nuova umanità modificata dal processo tecnologico e scientifico. Semmai, si afferma la necessità di portare il corpo ad un nuovo livello di percezione; l’oggetto si impadronisce del soggetto in quanto le cose ci riguardano da vicino, ci appartengono come noi apparteniamo a loro e dicono di noi ciò che non sappiamo o abbiamo volutamente dimenticato.
Il corpo, dunque, perde una consistenza propria per assumere l’aspetto di tutte le cose che lo abitano. Come ha scritto Jean-Paul Sartre in “L’essere e il nulla”, “il soggetto che vede, vede e si vede perché è egli stesso oggetto di una visione, di uno sguardo che lo guarda e lo trasforma in un soggetto-oggetto per altri”.

Nelle favole sono quasi sempre gli oggetti che si antropomorfizzano. Nel caso del lavoro di Giovanna Torresin, invece, succede il contrario e, paradossalmente, si potrebbe dire che il soggetto si oggettivizza tanto da assumere le sembianze di un “ready made” di duchampiana memoria.
Non siamo più di fronte all’”objet trouvé”, ma al “corp trouvé” con il tavolo destrutturato che diventa esso stesso parte di un processo fisico straniante, dove la cosa si trasforma in segno.
Tuttavia, nell’ambito di questo processo altamente simbolico, non si rinuncia mai ad una riflessione sull’intima natura dell’individuo. A ben vedere, è la perdita d’identità il tema che sta alla base di un’installazione emblematica come “Ominidi” realizzata appositamente per la personale proposta dalla galleria Silvy Bassanese. In questo caso una moltitudine d’individui è alle prese con le proprie protesi caratterizzate dalla fusione con quel tavolo che può essere, come scrive Giovanna Torresin, “smontato, ricomposto, liberando o intrecciando cattivi pensieri, disagi, fantasie pericolose che vengono addomesticate da quella forma così rassicurante e innocua, ma anche disponibile a metamorfosi e simbiosi”. Ceci n’est pas une pipe, diceva Réné Manritte e, in questo caso, si potrebbe dire Ceci n’est pas une table.
Lo sguardo va oltre lo sguardo e l’oggetto rappresentato dall’artista non è altro che la rappresentazione metaforica e metamorfica dell’io.
Giovanna Torresin non ha bisogno di travestimenti e usa, sia per le costruzioni plastiche sia per le immagini fotografiche, il proprio corpo inventando forme non prive di riferimenti mitologici come nel caso di “Volo”, una foto del 1998 elaborata a computer dove il corpo-tavolo potrebbe essere paragonato ad un moderno centauro.
Con il “Corpo estraneo” (questo, non a caso, è anche il titolo della mostra) bisogna convivere attraverso quell’oscillazione tra estremi che può essere considerato generativo di tutto il reale.

Come ricorda l’artista stessa, siamo di fronte al tavolo inteso come “luogo privilegiato di geometriche collocazioni funzionale di cose e persone”. Ma anche “luogo di lavoro e di convivio; di consumazione di gesti fugaci e riti, di relazioni private e pompose o essenziali cerimonie pubbliche”. E ancora, il tavolo è “luogo di dimezzamento dei corpi (un “sopra” evidente / un “sotto” nascosto), di comunicazioni mancate, di contatti bloccati, di fisiche delimitazioni”. All’artista non spiacerà se a queste definizioni aggiungiamo anche quella del tavolo inteso come luogo dell’attraversamento e del passaggio tra visibile e invisibile, esterno e interno, razionale e irrazionale, sonno e veglia.
Del resto, se in precedenza Giovanna Torresin utilizzava il tavolo come segno metamorfico e autorigenerativo autonomo (basti pensare a “Tavolo bianco”, un’opera emblematica del 1996 dove il tavolo contiene il simbolo sessuale), attualmente la situazione è molto diversa: qualche anno fa il tavolo era il contenitore della vita, mentre oggi rappresenta la vita nei suoi contenuti tanto da poter esistere solo a contatto col corpo in un’evidente accumulazione segnica.

In questa chiave si può leggere una scultura del 1998 dove il tavolo, come una lama, attraversa il corpo dell’artista diventando l’unico elemento reale di una rappresentazione in cui la fisicità perde di consistenza e l’individuo, smaterializzato, assume l’aspetto di un manichino anonimo in attesa di una nuova reincarnazione.
Con il sopravanzare della “cosa”, dunque, il corpo si affloscia e sembra cadere in uno stato di trance, in un sonno profondo da cui ci si risveglierà modificati. Comunque sia, è certo che dietro alle cose troviamo il mistero dell’individuo, in una volontà di rivelazione che ne rappresenta la vera essenza.

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As already known the end of the Nineties has been characterised by the identification of the physical body with the body of the art.
In the hand of the artist-creator, the kneadable body has became the place of survey and of transformation. Genetic engineering, cloning, piercing, aesthetic surgery, these all are processes that led to overcome the traditional naturalness concepts, to reach a kind of nomad identity, where the body is an element of the creative process, place of experimentation and struggle, of artificiality and challenge.
Therefore, the subject seems to flow into the cosmos and becomes the instrument which helps to afford a progressively changing reality.
“The evolution of the human kind is opening a new phase, that Charles Darwin would have never hypothesized. The inner potentialities of the genetic reconstruction can quickly transfer us beyond the natural Darwin-evolution, in an artificial evolution doom. Our society will soon choose to the bio-technological field, that will enable us to chose directly the way in wich the future evolution of living species will occur”, that’s what Jeffrey Deitich wrote in 1992 introducing “Posthuman”, an epoch-marking exhibition, considered as starting point of a precise course of enquiries.
From Jeff Koons to Paul McCarthy, from Cindy Sherman to Matthew Barney, from Yasumasa Morimura to Kiki Smith, many are those that are developing an aesthetic, starting from the re-formulation of the sensorial and physical sphere.
The work of Giovanna Torresin has to be analysed in this context, though it is necessary to precise some points.
If the post-human or the line proposed by Charles Saatchi, with his exhibition “Sensation”, sometimes risks to be a spectacular cliché and a “grandguignol” dominated by the naive will to obtain a chock-effect, the Lombard artist moves in an autonomous environment, where the re-elaboration of physically is not an end to itself, but responds to a precise ethical need, in which the physycal aspect matches with the psychoanalytic one.
The work of Giovanna Torresin arises from the projection of her own body to the sphere of the unconscious, and exactly this component makes it so real at the spectator’s eyes. Both when she uses sculpture, the installations or photographic images, the artist does not operate on the subject, but on the dramatisation of the object, that assumes a precise physical identity. It is the table the obsessive metaphor on wich Giovanna Torresin operates, working on the interference that hinders the harmony of the bodies.
In her work there’s not the wish to meet a new humanity, modified by the technological and scientific process. At the most, is the need to take the body at a new perception level that asserts itself. The object takes hold of the subject, because we are concerned with things.
They belong to us and we belong to them, and they tell of us what we do not know or what we wanted to forget.
Therefore the body loses its own consistency and assumes the aspect of all things living in it.
As Jean-Paul Sartre said in “L’Etre et le néant” (Being and nothingness) “the subject that sees, sees and sees himself, since he is the object of a vision, of a glimpse that look at him and transforms him in a subject-object at the eyes of the others”.
In fairy tales are almost always the objects that anthropomorphise. In the case of Giovanna Torresin’s work instead, the contrary is true. Paradoxically, it could be said that the subject objectivises so much as to assume the look of a “ready made” from Duchamp-memory. We are no more in front of the “objet trouvé”, but in front of the “corps trouvé”, with a disassembled table, that becomes part of an alienanting physical process, where the thing becomes sign.
Nevertheless within this highly symbolic process, a reflection on the intimate nature of the individual is always taken in consideration. At a deep analysis, it is the loss of identity the theme at the basis of an emblematic installation such as “Ominidi” (Hominids) realised on purpose for the personal exhibition presented by Silvy Bassanese’s gallery. In this case a multitude of individuals is struggling with its own prosthesis, characterised by the fusion with the table, that could be, as Giovanna Torresin writes “disassembled, assembled, freeing or weaving bad thoughts, uneasiness, dangerous fantasies, tamed by this form so ensuring and harmless, but also ready for metamorphoses and symbioses”. “Ceci n’est pas une pipe”, said René Magritte, and in this case we could say “Ceci n’est pas une table”.
The look goes beyond the look, and the object represented by the artist is nothing else but the metaphoric and metamorphic representation of the Ego. Giovanna Torresin does not need disguises, and uses, both for her plastic constructions and for photographic images, her body, inventing forms enriched by mythological references, as in the case of “Volo” (Flight), a computer processed photo dated 1998, where the body-table could be compared with a modern centaur. It is necessary to live together with the “foreign body” (this is also the title of the exhibition, and not by chance) through the swinging between extremes, could be considered as generating essence of what is real.
As the artist herself remembers, we are in front of the table conceived as “privileged place of geometric setting, functional for things and people”. But also as “working and convivial place; place of consumption for transient gestures and rituals, of private and showy relationships or essential public ceremonies”. And the table is also “table of halving of the bodies (an “evident above/hidden under”), of missing communications, of hindered contacts, of physical limitations”. But the artist will not mind if, to these definitions, we also add that of the table considered as place of crossing and of the passage from visible to invisible, outside and inside, rational and irrational, sleep and wake.
Apart from this, if before the artist used the table as metamorphic and autonomous self-regenerating sign (just think at “Tavolo bianco” (White table), an emblematic work dated 1996, where the table contains the sexual symbol), at present the situation has changed a lot. Some years ago the table was the container of life, while today it represents the life and its contents, so as to exist just in contact with the body, in an evident sign accumulation.
This is the key through which a sculpture dated 1998 can be read, where the table, acting as a blade, crosses the body of the artist, thus becoming the only real element of a representation, in which what’s physical loses its consistency and the individual, deprived from its matter, assumes the aspects of an anonymous doll waiting for a new reincarnation.
Therefore, as things go by, the body goes limp and seems to fall in a trance status, in a deep sleep, from which it will awake modified.
Anyway, for sure, beyond the things we find the mystery of the individual, in a will of revelation that represents the real essence.

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