Dall’oggetto al soggetto: andata e ritorno.
L’intero lavoro di Giovanna Torresin ci parla del corpo per affrontare quella complessa problematica dell’identità mutante alimentata dalle ricerche dell’ingegneria genetica e, in genere dalle nuove tecnologie. Ci parla di un soggetto che si riafferma idealmente attraverso l’inghiottimento di un oggetto e il curioso passaggio di ruolo tra soggetto e oggetto per cui diviene difficile porre nette cesure tra l’uno e l’altro. E lo fa mediante un lungo processo di analisi in cui, in un primo tempo, la dimensione soggettiva rappresentata dal corpo dell’artista resta fuori scena, lasciando al solo oggetto, il tavolo quale elemento d’indagine ossessiva e quasi maniacale, il ruolo del protagonista. Questo perchè proprio a ridosso di quell’unico oggetto, unico in senso archetipo essendo il tavolo rappresentato in diversissime forme e simbologie, l’artista dà corpo alle sue fissazioni, alle sue memorie e alle proiezioni futuribili della sua relazione con l’altro da sé. Insomma, come ho già avuto modo di affermare, per Torresin il tavolo è solo un pretesto per affrontare la complessa problematica dell’identità umana nell’era della post-tecnologia e della post-comunicazione. Se i due termini della questione sono dati dall’oggetto e dal soggetto, cerchiamo di capirne la diversa natura già a partire dalla loro valenza etimologica. Il termine oggetto deriva dal latino medievale obiectum, forma sostantivata del participio passato di obìcere ossia “metter davanti” (daob, “verso” + ìcere, “gettare”); quindi propriamente “ciò che sta davanti(al pensiero o alla vista)”. Il vocabolo soggetto deriva dal latino tardo subiectum, neutro sostantivato del participio passato di subicere “sottoporre”, composto di sub, “sotto” e ìcere, “gettare”. Significa argomento sottoposto all’attenzione, cioè oggetto esaminato. E’ curioso constatare come anche questa lettura restituisca una sorta di slittamento e di sovrapposizione dei due termini, laddove il soggetto si identifica con l’oggetto, non più posto innanzi alla vista e al pensiero, bensì entro un processo di analisi. La contrapposizione etimologica fra idue termini, inoltre, è radicata nella polarità esterno/interno: ciò che ci sta davanti, quindi al di là del nostro sguardo e pensiero; e ciò che, attraverso l’analisi, penetriamo e, conseguentemente, introiettiamo.
E’ in questo stesso passaggio che si compie la ricerca di Torresin: dall’oggetto (il tavolo) prima osservato come elemento esterno, come oggetto che vive di vita propria, allo stesso oggetto traslato lungo un processo creativo atto a vestirlo, spogliarlo, sintetizzarlo; insomma, esaminarlo tanto da elevarlo a soggetto dell’opera. Un soggetto che, caricandosi di memorie, simbologie, ansie, ambiguità e, in genere, di proiezioni dell’io dell’artista, acquista una valenza egocentrica e caricaturale (nel senso proprio del caricare di peculiarità), elevando l’ambiguità a piattaforma di riferimento per una problematica identitaria che dichiara una particolare inclinazione per il versante femmineo. Il tutto mediante un processo di destrutturazione che chiama in causa un atteggiamento introspettivo di natura trasversale: entro l’oggetto plasmato da una soggettività “caricata” in cui già abita l’identità umana, formalmente riscontrabile nell’antropomorfizzazione del tavolo. Al passaggio che dalla visceralità materica e antropomorfa conduce alla sintesi, alla geometrizzazione dell’oggetto e a una certa freddezza, ne segue poi un altro, fondamentale per il compimento dei lavori in mostra. Alla realizzazione dell’oggetto, che chiama in causa la necessità di una dimensione fabbrile, quindi di un contatto manuale diretto con la processualità del fare, si aggiunge l’utilizzo della macchina fotografica.
Già la scelta di tale mezzo, che presuppone la presa di distanza dall’oggetto, ricollocandolo nella sua dimensione di “cosa” posta innanzialla vista e al pensiero, riconferma l’avvento di una certa freddezza che caratterizzava gli ultimi tavoli. Non si tratta, però, di un mero processo di ripresa fotografica. L’immagine, infatti, viene poi scannerizzata e digitalizzata al computer, quindi manipolata e alterata, in modo diverso ma secondo il medesimo principio di mutazione in corso che Torresin adottava nella realizzazione degli oggetti. Nelle prime fotografie il tavolo, minimalista ed essenzializzato, è ancora presente in tutta la sua pregnanza oggettuale. E’ un tavolo ormai astratto,ossia ridotto ad archetipo, spogliato di qualsiasi particolarità formale e materica: il lungo processo di manipolazione attraverso il quale l’artista l’ha sondato e vagliato, ha prodotto una sorta di depurazione, facendolo rinascere più come idea che come oggetto concreto. E’ con quell’idea che la corporeità dell’artista si misura, con quell’idea che Giovanna Torresin pratica un contatto diretto, quasi uno scontro, una lotta, un rapporto orgiastico in cui la sessualità non si compie più fra maschile e femminile bensì tra organico e inorganico. A dominare l’immagine, a detenere il ruolo del protagonista ora è il corpo umano, è il soggetto inteso si come argomento sottoposto all’attenzione, come oggetto esaminato; ma in quanto solo vero soggetto di tutta la ricercadi Torresin, quel soggetto che prima si celava dietro l’oggetto-tavolo elevato a soggetto-pretesto di un’opera che già dai suoi primordi dibatteva la problematica dell’identità umana.
Un soggetto esploso nelle fotografie con un’identità meticciata e ambigua, reduce da una complessa mutazione attuata da ciò che ho definito come “poetica dell’innesto”. Innesto di una protesi organica sull’oggetto inanimato e, al contempo, di una protesi inorganica sul corpo umano. Un corpo che si fa attraversare dal tavolo,senza subire squarci sanguinolenti, ma piegandosi a un atteggiamento introspettivo e consenziente; un corpo che si libra in volo attraverso la corporeità di una sirena che non abita il mare ma la quotidianità domesticade strutturando la funzionalità delle gambe del tavolo e, al contempo, quella delle gambe della donna; un corpo schiacciato contro un rigido frammento inorganico sul quale preme la schiena prefigurando un rapporto di forza e di riflessione nell’accoglimento di una testa che occulta il volto e l’espressività; un corpo, ancora, che lasciandosi trafiggere dall’oggetto abbraccia il proprio doppio moltiplicandosi in una Maternità che si eleva a emblema di tutta la ricerca. Una maternità inquietante, in cui l’artista è madre e figlia, soggetto che infonde amore e protezione, e oggetto da accudire. Il passaggio che dal tavolo conduce al corpo e alla relativa penetrazione e simbiosi fra entrambi, si ritrova in questo duplice autoritratto che contempla quel processo introspettivo verso le cose e il proprio io mediante contaminazioni e meticciaggi che riconducono sempre all’identità dell’artista, fortificata proprio da spostamenti e traslazioni. Entro questo processo di mutazione emerge un altro rapporto fra polarità antinomiche, percepibile proprio nella relazione fra tavolo e donna, nonché fra madre e figlia. Si tratta di due dimensioni dell’esperienza: quella erotica e quella estetica, che Franco Berardi definisce nel primo caso quale “percezione della bellezza come venir meno, come decomposizione e sfiorire, come godimento dell’essere nel tempo” e, nel secondo caso, quale “sferaentro cui la bellezza è percepita come intemporalità, come godimentodell’artificio”. Due temporalità che, presentate all’unisono, in simbiosi, come fa Torresin, prefigurano un aspetto processuale, un passaggio senza soluzione di continuità fra permanenza e immobilità, dissolvimento e animazione. Processualità rafforzata ancor di più nell’ultimo ciclo di lavori, quelli in cui il corpo dell’artista è rosso e occultato nei suoi tratti fisionomici, perchè le due polarità sembrano coincidere con i due elementi che compongono l’immagine, ma attuando un ironico tradimento delle attese secondo un ribaltamento di connotazioni identitarie. Il corpo organico coincide con la permanenza e l’immobilità: è statico, ripiegato su se stesso in un atteggiamento di perseverante chiusura. Il tavolo, ormai completamente smaterializzato, divenuto mera ombra, ma ampia e invasiva, chiama a sé il principio del dissolvimento e dell’animazione. Animazione intesa come prolungamento, come avanzamento di un’ombra che attraversa l’interaspazialità dell’immagine, quindi contamina il corpo e, come emerge dagli ultimissimi lavori, lo avvinghia, lo stringe, lo lega e incatena, lo ingloba e introietta. I termini della questione si sono nuovamente ribaltati: ora è l’oggetto ad accogliere il soggetto, è il tavolo ad appropriarsi del corpo, ad invaderlo. Ma si tratta di un tavolo ridotto all’osso, di un tavolo-idea, di un tavolo-ombra, di un tavolo, insomma, elevato a emblema dello sguardo trasversale dell’artista sulle cose e sul mondo, elevato a pretesto per rendere manifesto il pensiero dell’artista.
Lo stesso processo di sintesi e di svuotamento fisionomico caratterizza il suo corpo rosso. Un corpo occultato nei suoi tratti identitari da una pittura rossa che riabilita quelgusto per la diretta manipolazione della materia riscontrabile anche nella parallela produzione di sculturine che concorrono alla produzione di miriadidi omuncoli ibridati. Un corpo occultato nei suoi tratti fisionomici anche mediante la manipolazione computerizzata, che riconferma, invece, il concetto della smaterializzazione e della presa di distanza dalle cose, sottesa alla scelta del mezzo fotografico. Un corpo, quindi, in qualche modo svuotato, che ognuno di noi potrebbe calzare e abitare come un abito stretto e rassicurante, come una sorta di guaina capace di farci attraversaredall’oggetto-tavolo cosi come da qualsiasi altro oggetto di una quotidianità divenuta stra-ordinaria, per poi rotolare in uno spazio mentale, in uno spazio immaginario perchè non realmente tangibile, ma più vero del vero, perchè nato da una relazione profonda, viscerale, fisica e concettuale congli oggetti, i gesti e i luoghi che giornalmente sperimentiamo.
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The whole work by Giovanna Torresin is about the body, an attempt to dealwith the complex issue of mutant identity raised by genetic engineering and,in general, by the new technologies. Her work is about a subject who ideallyreaffirms himself by swallowing an object and originating an odd exchange ofroles between the subject and the object to the point that it is difficultto see a neat boundary between the two entities. And this is the result of along process of analysis whereby, at an earlier stage, the subjectivedimension represented by the artistís body remains off stage, and the objectonly – the table as an element of obsessive, almost maniacal investigation -gets the leading role. This happens because it is exactly close to thatunique object – the word unique here is used to mean an archetypalconnotation, because actually her tables take on manifold forms and symbols- that the artist gives shape to her own fixations, memories, possibleoutlooks of her relation with another self. In brief, as I have alreadystated before, for Torresin a table is only a pretext to deal with thecomplex issue of human identity in the era of post-technology andpost-communication.If the two elements in this issue are represented by an object and asubject, let us try and understand how they differ starting from theirrespective etymological meaning. The word object comes from medieval Latinobiectum, a noun from the part participle of the verb obìcere, meaning “toput before” (from ob, “before, toward” + iàcere, “to throw”); and so itliterally means “thing put before (the mind or the sight)”.
The word subjectcomes from Latin subiectum, a neuter noun from the past participle of theverb subicere “to subject”, composed of sub, “under” and iàcere, “to throw”.The word means ‘a matter submitted to attention’, i.e. examined object.Oddly, this approach too shows that the two words have shifting andoverlapping meanings, that the subject is identified with the object, whichin turn is no more found before the mind or the sight but inside a processof analysis. Furthermore, the etymological opposition of the two words takesits root in the polarity between outside/inside: what is before us,therefore beyond our sight and mind, and what we penetrate with our analysisand, as a consequence, incorporate. Torresin’s investigation follows thesame path: from an object (a table) observed at first as an externalelement, as an object with a life of its own, to the same object gonethrough a creative process aimed at dressing it up, stripping it off, makinga synthesis of it, in sum examining it so carefully that it is upgraded tothe role of subject of the work. Overloaded with memories, symbols,anxieties, ambiguities and, in general, projections of the artistís self,this subject takes on an egocentric and caricatured (i.e. literally,overloaded with features) value. Also, it raises ambiguity to the role ofreference platform for a problem of identity which indicates expressly aspecial liking for the female world. This takes place through adeconstructive process implying an introspective transversal approach:within the object created by an ‘overloaded’ subjectivity already inhabitedby the human identity, formally verifiable in the anthropomorphicmetamorphosis of the table.The passage from the material and anthropomorphic visceral nature tosynthesis, to a geometrical definition and somehow cold connotation given tothe object is followed by another passage, which is essential to bring thework to its completion. After the construction of the object – implying afeverish activity linked to the direct manual contact in the process ofmaking it – comes the use of a camera. The choice of this medium itself,which implies some distance with the object and brings the object back toits former dimension of ‘thing’ put before the sight and the mind, confirmsthe somewhat cold character of the latest tables. However, it is not asimple shot. The picture, in fact, is scanned and digitalised with acomputer, then processed and altered, in a different way but again followingthe same principle of mutation in progress Torresin used to make herobjects.In the first pictures, the table – minimalist and made essential – is stillthere with all the force of an object. It is an abstract table, i.e. reducedto an archetype, deprived of all formal and material features of its own:the long process of manipulation whereby the artist has been investigatingand sorting it has produced a sort of depuration, so that the table isfinally rendered more as a notion than as a concrete object. It is exactlywith this notion that the artistís corporeity is confronted, that GiovannaTorresin gets in close touch, giving way to a collision almost, a fight, anorgiastic intercourse where sex is no more happening between a male partyand a female party, but between an organic entity and an inorganic one.
Prevailing in the picture, and playing the leading role throughout is nowthe human body, the subject intended as a matter submitted to attention, asan examined object, but also – being the true subject of the whole researchled by Torresin – the subject previously hidden behind the object-table isnow raised to the rank of a subject-pretext for a work which, since itsearly beginnings, has been discussing the issue of human identity. Thissubject bursts out in the picture with a hybridised ambiguous identity, theresult of a complex mutation arising from what I have termed as ‘the poeticsof grafting’. Grafting an organic prosthesis onto an inanimate object and,at the same time, an inorganic prosthesis onto the human body. This bodylets the table run through it, without being bloodily torn by it, but givingin with an introspective and consenting approach; this body takes the flightthrough the corporal form of a siren who lives not in the sea but in adomestic setting, and deconstructs the function of the table legs and, atthe same time, of the woman’s legs. This body with its back crushed againsta stiff inorganic fragment hints to a relation of strength and meditation,bending its head to hide the face and expression; and again, beingtransfixed by the object, this body embraces its own double and multipliesinto a Motherhood raised to the rank of emblem of the whole research. Adisquieting motherhood, where the artist is both a mother and a daughter, asubject inspiring love and care, and an object to be cared for. The passageleading from the table to the body and to their mutual penetration andsymbiosis is found again in this double self-portrait, which contemplatesthe introspective process inside the objects and one’s self throughcontaminations and blends, all leading back to the artist’s identity, whichis empowered by such shifts and transfers.Within this process of mutation, another relation of polar oppositions comesto the fore, and namely in the relation of a table to a woman, and of amother to a daughter. These are two dimensions of experience: an eroticaspect and an aesthetic aspect, which Franco Berardi defines, respectively,as “beauty perceived as fading, decomposing, withering, as enjoyment ofliving with time and as ‘a dimension where beauty is perceived astimelessness, as enjoyment of artifice’. These two time dimensions – whenpresented in unison, in a symbiosis like in Torresinís work – foreshadow aprocess, an uninterrupted passage from permanence to immobility, dissolutionand animation.This sense of progression is consolidated further in the last cycle of herworks – where the artist’s body is red-coloured and her facial featuresremains hidden – because the two polarities apparently coincide with thetwo elements of the image, but expectations are ironically deceived herewith an overturn of identity connotations.
The organic body corresponds topermanence and immobility, is static, withdrawn into itself in apersistently closed position. The table, now totally dematerialised, simplya shadow though vast and invading, recalls the principle of dissolution andanimation. Animation here is intended as the extension of a shadow advancingand crossing the whole space of the image, and so contaminating the body and- as seen in the latest works – grasping it, clenching it, binding andchaining it, incorporating and introjecting it. The terms of the problem areoverturned again: now the object is the one to take the subject in, thetable is the one to get hold of the body and invade it. But the table hereis reduced to a skeleton, the shadow of a table, in sum a table raised tothe rank of emblem of the artistís transversal glance upon the things andthe world, taken as a pretext to manifest the artist’s thought. The sameprocess of synthesis and depletion of physiognomy affects the red body,whose features are hidden by red paint, revisiting the fondness for a directmanipulation of the matter that is also evident in the artist’s parallelproduction of figurines contributing to the creation of myriads of smallhybridised men. The physiognomical features of this body are also hiddenthrough a computer-aided manipulation, which confirms the notion ofdematerialisation and estrangement from things implied in the choice of thephotographic medium. This way, the body gets somehow emptied, somethinganyone of us could wear and inhabit like a reassuring tight dress, a sort ofsheath allowing us to be crossed by the object-table or any other object ofan ordinary life become extra-ordinary, and then roll away in a mentalspace, an imaginary space that is not really tangible, although it is moretrue than reality because it is generated by a deep, visceral, physical andconceptual relation with the objects, gestures and places we experiment day by day.