INTERROGATIVI ESSENZIALI E TENTATIVI DI RISPOSTE – Ferruccio Giromini –

CHI?

Giovanna Torresin è una donna come tante, una donna come poche. Ha avuto i suoi alti e bassi, momenti belli e altri no, gioie e difficoltà, come può capitare a chiunque. Diversamente dalla norma, tuttavia, quando si è trovata a fare i conti con i propri inevitabili smarrimenti, li ha affrontati e superati con un guizzo d’energia non comune – affidandosi all’arte. Ci sarebbe da interrogarsi, una volta di più, su cosa significhi l’arte, in sé, e su cosa possa significare l’arte per la psicologia del singolo artista. Ma è un discorso con infinite implicazioni, argomento spinoso, impossibile da liquidare in poche righe. Diremo solo che a volte l’arte, ovvero la capacità umana di condensare i mille grovigli dell’umano sentire in simboli percepibili e interpretabili, ha capacità miracolose di catalizzazione delle più disparate problematiche: tanto per chi l’arte fa, che vi può riversare le proprie ebollizioni esistenziali e finalmente considerarle esternate oltre sé, quanto, in misura minore, per chi l’arte contempla e in qualche modo subisce, che a sua volta vi può riconoscere pregnanti metafore di deterioramenti e virtù di tutti e di ognuno. L’arte dunque per Giovanna Torresin è stata ed è lo specchio delle sue brame, la dama di compagnia quotidiana, da interrogare con insistenza per ottenere risposte sincere, anche difficili ad accettarsi talvolta, ma chiarificatrici. E il rapporto con lo specchio è sempre, per una donna, altamente emotivo: ora gratificante, ora doloroso, ora pacificatorio, ora incendiario. Porsi domande implica il coraggio di affrontare le risposte: non tutti ne sono capaci sul serio. Ma quest’artista è una donna audace, che osa guardarsi negli occhi e reggere il proprio sguardo anche quando è spaventoso e lancia folgori di allarme. Non vi è nulla di gravissimo a monte, intendiamoci, nella vita di Giovanna Torresin. Vi è però un crescere senza padre e, viceversa, accanto ad una figura di madre con cui le è sempre stato difficile fare i conti. E quant’altro. Problemi non solo suoi, certo, ma comunque i suoi problemi, quelli che le hanno reso la vita, anche adulta, più complicata. È qui che la donna è rinata artista. Per aiutarsi ad essere donna compiutamente. Per strapparsi dei pesi personali da dentro e, oggettivandoli, condividerli con altri; per concedere forme tangibili ai propri urli interiori, incolori e inodori (ma non indolori); per l’esigenza femminilissima di partorire creature vive di vita propria che vadano infine per il mondo autonome a percorrere le loro strade altrove. Questo è il compito che si è data l’artista – giving person – per se stessa e per il suo pubblico: offrire all’universo amorevoli pezzi di sé, per liberarsene e per condividerli. Le sue piccole e grandi dolenze individuali si sono fatte carico di impersonare e di veicolare, a modo loro, con distacco e insieme partecipazione, anche alcune delle nostre vostre loro tribolazioni quotidiane. Acquistando in ciò una dimensione eroica, novella Crista che si fa carico dei peccati altrui, Giovanna Torresin appare forse miserevole e commiserevole come tante, di sicuro commendevole e ammirevole come poche.

COME?

L’artista si pone interrogativi vitali con gli occhi sbarrati sul vuoto e, dopo la vertigine e lo sconcerto iniziale, sceglie di fare. Qualcosa. Non importa cosa, lì per lì; ci si penserà dopo, ci penseranno gli altri a cercar di capire. L’importante è fare, presto, hic et nunc. L’artista è artefice prima di tutto: colui che fa. Giovanna Torresin fa soprattutto con se stessa. Non va a cercare lontano: fa l’arte col proprio corpo, dà voce alle proprie viscere usando la propria pelle. Fedele al tempo che la ospita, ne utilizza i mezzi più aggiornati, messi a disposizione dalla tecnologia. Si fotografa, si fa fotografare, in formato digitale, poi si mette davanti alle immagini realizzate, ora attraversate dalla luce di un monitor di computer, e pian piano le taglia, le ritocca, le adatta all’idea, le modifica compenetrandole con altre, le decolora, le ricolora, le illumina diversamente, le fa rinascere come nuove. È sempre lei, quel corpo, ma non è più lei: la donna come tante è diventata una donna unica, un paradigma di donna. L’artista si trasforma: dapprima sotto i propri occhi, in seguito davanti ai nostri. Offre di sé un’immagine ideale, ma quella che di sé sente più reale. Un corpo accoccolato in se stesso, che si tiene caldo da solo. Sospeso in uno spazio senza tempo, in un tempo senza spazio. In una semioscurità dove la luce arriva appena ad accendere un piccolo particolare qui, una timida protuberanza lì. Un corpo che ci si offre inizialmente nudo, ma senza esibirsi in modi plateali. Anzi, si torce e raggomitola con discrezione, senza guardarci negli occhi, ancora in gran parte stretto in se stesso, dandoci spesso la schiena, nascondendosi in sé, sussurrandoci la propria presenza senza impudicizie. E intanto si ricopre di altri segni. Si tappezza di istoriazioni barocche – ma non gli usati e abusati tatuaggi. Va a cercare le piastre inchiavardate e i labirintici intrichi di ghirigori delle fastose corazze militari del Cinquecento e del Seicento e se ne riveste da capo a piedi. Non si limita però ad appoggiarsi sopra i componenti cesellati: li incorpora letteralmente, li incista nell’epidermide mutandola per sempre: così la pelle si fa cuoio lavorato, si fa acciaio temperato, si fa barriera impenetrabile, difesa inattaccabile. La donna assediata e corrosa dalla vita, quando questa è ingrata, adesso diviene superdonna, capace di resistere a sollecitazioni assassine e di prevalere nella battaglia diuturna con le avversità più subdole. Vince difendendosi, e non attaccando – da vera donna, appunto. È indubbio che il conflitto sia e permanga drammatico. Lo testimoniano le tenebrosità dell’atmosfera, che sanno distinguere le durezze e gli sforzi della lotta. Il buio e il sangue. Il rosso e il nero dell’alchemica opera inesausta del solve et coagula, lento e silenzioso lavorio di trasformazione della materia in qualcosa di più, in ipermateria. Mutazione chimica, mutazione fisica, mutazione psichica, mutazione spirituale. Quanto mai complessa e faticosa.

DOVE?

Giovanna Torresin lavora su se stessa in se stessa. La solitudine è conditio sine qua non per poter affrontare e portare avanti un’analisi tanto intensa e tanto inesorabile del proprio io. Servono lunghi tempi di riflessione. Serve il silenzio del mondo attorno. Serve fare il vuoto e l’ordine, quando il nostro tempo quotidiano è sempre troppo pieno e troppo caotico. Serve il coraggio di guardare in faccia le proprie paure. Serve la sospensione dal mondo che senza sosta si srotola e rotola lì fuori. L’artista si è sempre ritagliata nei suoi rifugi una realtà separata, dove poter coltivare al meglio l’isolamento che le è assolutamente indispensabile per revisionarsi di continuo, come in effetti fa, tramite le ristrutturazioni virtuali del proprio involucro fisico. Non si cambia il proprio aspetto prendendolo (prendendosi) alla leggera. Ogni volta è una rimodellazione plastica di se stessi, e non è certo un processo indolore. Appare del tutto comprensibile la ricerca, se non il completo raggiungimento, di un distacco psicologico e di una disciplina psicofisica che aiutino in tal senso. Caparbia, l’artista anacoreta tiene lontane le tentazioni del mondo, perlomeno le tiene a bada costante. Anche per questo il suo panorama simbolico si è via via asciugato ed essenzializzato. Sospesa nella sua personale tebaide, c’è lei e non le serve altro. La propria corporeità le fornisce già materia in abbondanza, e a perfetta sufficienza, per lavorare ancora a lungo intorno a quanto più le sta a cuore. Dal mondo si è tenuta volentieri distante, finora, e questo spiega la sua proverbiale riluttanza a mettersi in mostra. Ma allo stesso tempo ciò la rende degna di una patente di sincerità ben rara nei tempi correnti, in cui chiunque spasmodicamente cerca di conquistarsi un posto sicuro nel mercato e almeno il classico quarto d’ora di celebrità. Lei viceversa ama operare nella sua penombra, dietro le sue stesse quinte, entro i confini del proprio eremo e del proprio corpo, paga abbastanza della propria ricerca – ma non abbastanza, per potervisi addentrare ancora e ancora.

QUANDO?

Le tappe della ricerca solitaria di Giovanna Torresin testimoniano un’articolazione costante, coerente, eppure per certi aspetti sorprendente. Dopo i lontani primi passi ancora immersi nella pittura informale, le fasi successive del suo percorso l’hanno vista dedicarsi ad installazioni di forte impronta concettuale (1993) fedeli alla scelta di circoscrivere il piano d’azione al “piccolo mondo antico” del suo guscio abitativo, in particolare la cucina e specialmente il tavolo (1997). È col tavolo come deuteragonista che la sua arte si è fatta soprattutto conoscere; è col tavolo come “sposo” che l’artista ha cominciato ad intersecare il proprio corpo, facendosene letteralmente penetrare e attraversare, in elaborate immagini digitali di grande impatto emotivo (1998). Da lì, individuata la propria cifra espressiva più congeniale, pur senza disdegnare sporadici e ponderati ritorni all’installazione, infine si è concentrata sulle rappresentazioni del proprio corpo ibridato con elementi di armature metalliche storiche (2003), sfornando alcune serie di curatissime stampe lambda di formato medio-grande e con qualche incursione nell’uso di lightbox. Tali cicli hanno abbandonato i cromatismi più accesi delle prime serie, fin da subito, per abbracciare una rigorosa riduzione dapprima al solo bianconero, appena scaldato da qualche elegante accensione (in pochi casi motivati), e poi pure ad un monocromatico rosso, intenso e straniante. Ma tra di essi, a sorpresa, si è inserito un breve e conchiuso ciclo di corpi puri, infine non contaminati da altri elementi, ma declinati nelle loro forme dolcificate in un glorioso color rosa scioccante (2005): un inatteso gusto di fragola e caramello che fa intuire possibili sviluppi futuri in direzioni del tutto nuove.

PERCHÉ?

Diventa invero appassionante seguire il risoluto addentrarsi di quest’artista nella propria esistenza di donna, che continua a parlarci di sé, a urlare (ma sottovoce, educatamente; forse si potrebbe dire meglio: a cantare roca) la propria individualità in cerca di punti fermi. Essendo sincera, fino in fondo, Giovanna Torresin peraltro non può non agire e rappresentare con accenti anche drammatici. Se dei precedenti artistici le si vogliono trovare a tutti i costi, probabilmente non le dispiacerebbe essere accostata alla “grande vecchia” Louise Bourgeois, riconosciuta sciamana esorcista dei propri annosi timori (capace di sentenziare lapidaria: “scopo dell’arte è, né più né meno, vincere la paura”), oppure alla valorosa pioniera della body art Gina Pane, maestra di materializzazione dell’ansia esistenziale anche attraverso un dichiarato e patente autolesionismo. Non siamo, invece, dalle parti più dichiaratamente masochistiche del post-human ora più di moda, quello di Orlan e Stelarc, troppo colorato da componenti spettacolari esibizionistiche. Il mettersi in scena di Giovanna Torresin risponde piuttosto ad altre esigenze. Di fronte ai basici interrogativi esistenziali, la schiettezza e il candore tipici dell’artista – senza i quali un artista è meno artista, indubbiamente – qui si fondono con un’insopprimibile aspirazione a far quadrare l’etica con l’estetica, forse a farle addirittura coincidere reciprocamente. È anche perciò che il suo mettersi in mostra avviene a livello intimo, nella pura fase realizzativa, ma poi non viene seguito allo stesso modo nell’amplificazione mediatica e per così dire di marketing del prodotto, che l’artista sincera considera onestamente (e legittimamente) molto ma molto meno essenziale. Le basta distillare le sue rade opere, meditate a fondo, una per una. È un’artista anacronistica, dunque, nel suo appartato e incorrotto rifiuto del chiasso promozionale? È un’artista genuina e integra, questo sì, e pertanto ancor più insolita e pregevole.

IL ROSSO E IL NERO – Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea – Ovada ( AL)

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RELEVANT QUESTIONS AND ATTEMPTED ANSWERS

WHO?

Giovanna Torresin is a woman like many others, a woman like few others. She has had her ups and downs, some good times and some bad times, some joys and some sorrows. Nonetheless, unlike what usually happens, when she has been inevitably at a loss, she has faced those spells of difficulty and overcome them with an uncommon fit of energy – and resorted to art. One should wonder once more about the meaning of art itself, and about what art can mean for the psyche of an individual artist. Such a contemplation, however, would bring in endless implications, hard topics to deal with, and impossible to dismiss in a few lines. We will say only that sometimes art – i.e. the human capacity to squeeze the thousand tangles of human feeling into perceptible and intelligible symbols – can do miracles as a catalyser of the most disparate issues, both for them who make art, and can pour their existential turmoil into it and this way view it as foreign to their selves, and, to a lesser extent, for them who contemplate art and somehow receive it passively, and can sometime recognise in it pregnant metaphors of anybody’s and everybody’s falls and qualities. So, art has been for Giovanna Torresin the mirror on her wall, her lady companion of every day, one she would interrogate insistently to get honest answers, sometimes hard to accept but surely clarifying. And – you know – a woman’s relationship with her mirror is always deeply emotional, sometimes rewarding, sometimes painful, sometimes soothing, sometimes inflammatory. Asking questions to oneself implies that one is ready to cope with the answers, and not everybody can really make it. But this artist is a bold woman, who dares looking into her eyes and hold her stare, even if that stare is frightening and flings flashes of alert all about. Mind you, no really serious troubles in the life of Giovanna Torresin. But she grew up fatherless, and with a mother she has always had troubles to reckon with. And some more problems, not only hers, but anyway her problems, the problems that made her life as an adult much more complicated. And there did the woman turn into an artist. To help herself become a complete woman.

To tear off her personal sorrows from within herself and have them objectified, so as to share them with others. To give tangible shapes to her intimate colourless and odourless (though not painless) screams. And also to meet that very womanly need to give birth – and her own life – to living creatures that will eventually go in the world on their own and find their way elsewhere. This is the task the artist – a giving person – gave to herself, for her own sake and for the sake of her audience: lovingly offer the universe some bits of her self, so as to get rid of them and share them. Her small and big individual sorrows have taken up the burden to embody and circulate, in their own detached and involved way at the same time, some of our, your, their daily worries. By doing so, Giovanna Torresin takes on a heroic face, she turns into a new woman Christ who takes up the sins of others upon herself, and for this she may look pitiful and pitiable like many others, though she certainly is commendable and admirable like few others.

HOW?

As an artist, you wonder about vital issues with your eyes wide open into the void and – after an initial fit of dizziness and dismay – you choose to act. To make something. On the spur of the moment, you don’t mind what, you will think about it later, or the others will have to try and understand. What matters is making, and soon, hic et nunc. Above all, an artist is a maker, i.e. somebody who makes. Giovanna Torresin makes especially with herself. She doesn’t look away from herself: she makes art with her own body, she gives voice to her own bowels using her own skin. Loyal to the times she lives in, she uses the most advanced means made available by technology. She takes pictures of herself, or has herself photographed, in digital format, then she stands before her pictures, now viewed through the light of a computer screen, and slowly starts cutting them, touching them up, adapting them to her idea, bleaching them, colouring them up again, choosing a different light, and eventually turning them into brand new images. That body is always hers, but no more herself: a woman like many others has become a unique woman, a paradigm of a woman. The artist gets transformed: first under her own eyes, then under ours. She offers an ideal image of herself, the image she feels as the most real. Like a body curled up to keep itself warm. Suspended in a timeless space, in a spaceless time. In a half-lit room where light can only brighten a small detail here, a timid prominence there. A body coming essentially naked but never showing off blatantly. On the contrary, it twists and huddles up discretely, and never looks into our eyes, somehow still clung to itself, often seen from the back, hidden into itself, and shamelessly whispering it is there. And in the meanwhile, it covers up with other signs. It comes covered in baroque decorations, though not the much used and abused tattoos. It searches for the bolted plates and the maze of tangled doodles which decorated the armours in the 16th and 17th centuries and covers with them head to toe. And these wrought parts are not just laid onto the body, but the body will literally incorporate them, implant them in the epidermis and get changed forever: this way, the skin becomes wrought leather, hardened steel, an impenetrable barrier, an impregnable defence. A woman once besieged and corroded by life, because life is mean to her, now becomes a superwoman capable of bearing any killing strains and of prevailing in her daily fight against the most insidious hardships. She will win by defending herself and not attacking – i.e. as a real woman. Undoubtedly, the fight is and remains tragic. This is confirmed by the dim atmospheres, where one can see the trouble and effort of fighting. Darkness and blood. The red and black of an in-exhausted alchemy, i.e. solve et coagula, a slowly and silently laboured transformation of matter into something else, into hypermatter. A chemical mutation, a physical mutation, a psychic mutation, a spiritual mutation. All the more complex and strenuous.

WHERE?

Giovanna Torresin works on herself and in herself. Loneliness is a conditio sine qua non to cope with and to lead such an intense and inexorable analysis of one’s self. To do it, you need long spells of musing. You need silence in the world around you. You need to make void and order, at a time when our daily routine is overcrowded and overfrenzied. You need to have the courage to cope with your own scares. You need to step out of the world that relentlessly unrolls and rolls, out there. This artist has always cut out a separate reality for herself in her sanctuaries, somewhere she could cultivate isolation, something she absolutely needs to carry out a constant revision of herself – what she really does – through the virtual reordering of her body shell. You cannot change your appearance if you take it (or take yourself) lightly. Each time you make a plastic remodelling of your self, and this is certainly not a trouble-free process. It is therefore fairly understandable you need to strive for – if not reach – a complete psychological detachment and some psycho-physical rigour to help you get there. Stubbornly does this recluse artist keep worldly temptations away from herself, or at least constantly under control. For this reason too, her symbolic universe has become increasingly leaner and essential. Suspended in her own waste land, she stays there and needs nothing else. Her own corporeity gives her abundant matter, and just enough of it, to labour what she cherishes most for quite a long time. To date, she kept astray from the world quite happily, and this explains her proverbial reluctance to exhibit. At the same time, however, this makes her worth receiving a tribute for sincerity, such a rare quality at our time when anybody spasmodically tries to conquer safe positions in the marketplace, or at least the standard fifteen minutes of celebrity. Quite the opposite, she likes working in her own half-shade, behind her own scenes, within the boundaries of her hermitage and of her body, satisfied enough with her research – though not enough – to try and get even deeper, and deeper.

WHEN?

The steps of this lonely research of Giovanna Torresin’s bear witness to a constant, consistent development, though a surprising one to some extent. After those faraway first tries still rooted in informal painting techniques, the following steps of her evolution have deeply committed her to extremely conceptual works (1993), where she remains loyal to her intention to confine her plan of action to the “little ancient world” of her own nest, namely the kitchen, and the table especially (1997). This table designated as a deuteragonist made her art known to the world; this table elected as her “spouse” was first intersected with the artist’s body, which literally let herself be penetrated and crossed by it to produce elaborate digital images of a great emotional impact (1998). From then, when she found her most congenial expressive mark, although never disdaining to go occasionally back to a few considered installations, she finally focused on the representation of her own body hybridised with parts of historic metal armours (2003) and produced a few collections of carefully studied medium to large-sized lambda prints, as well as some lightbox uses. These cycles have soon left the bright colours of the first series behind and embraced first a rigorous use of black-and-white, just warmed up by a few elegant glints (justified in few cases only), and later of a pure, deep and alienating, red. Surprisingly, in between came a short and restricted cycle of pure bodies, finally not contaminated by foreign objects, but featured as sweetened shapes coloured in a glorious shocking pink (2005): an unexpected flavour of strawberry and caramel suggesting that her future art may take entirely new directions.

WHY? It is extremely thrilling to follow the resolute exploration this artist is making of her womanly nature. She continues to tell us about herself, and shout (though speaking softly, politely; we may say she sings in a hoarse voice) her own individual quest for certainties. Because she is honest to the bone, Giovanna Torresin cannot but act and represent with a few dramatic accents. If you really want to find any artistic background for her, maybe you won’t wrong her by associating her to the “great oldie” Louise Bourgeois, the shaman who exorcised her long-time worries (and said sententiously: “the goal of art is to overcome fear, no more, no less than that”), or to the bold pioneer of the body art Gina Pane, a master in materialising existential anguish though a declared and patent self-punishment. On the other hand, we are miles away from the most blatantly masochistic post-human mood currently fashionable, like in Orlan and Stelarc, too full of spectacular and exhibitionist components. The way Giovanna Torresin comes to the scene is dictated by totally different needs. Before the basic existential questions, the frankness and candour of an artist – without which an artist would undoubtedly be less of an artist – here blend with an irresistible aspiration to make ethics match aesthetics, and even become mutually coinciding. For this reason too, her exhibition comes at an intimate level, i.e. when her works are produced, and is not so carefully followed at a later stage of media amplification, in other words when her product is marketed, because the sincere artist honestly (and rightfully) considers this stage far less important. She is quite happy to distil her sparse works one by one, after they have been deeply pondered.

Then, is she an anachronistic artist, stuck to her own recluse and uncorrupted refusal of advertising uproar? Well yes, she is a genuine uncorrupted artist, and so all the more uncommon and praiseworthy.

Ferruccio Giromini – Catalogue

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