La fissazione su un’entità, su un’idea, su un oggetto conduce alla reiterazione e all’ossessione. Quando, però, tale processo è il fondamento della ricerca di un artista, non si cade mai nella mera ripetizione: l’ossessione diviene filo conduttore di una sottile metamorfosi in divenire. Il lavoro di Giovanna Torresin, che vive e opera in Lombardia, recentemente esposto allo Studio Tommaseo di Trieste, incarna questa specifica particolarità fondata sullo specifico di un oggetto, il tavolo è recuperato nella sua identità quotidiana e nella sua pluridirezionale valenza simbolica. Sono queste ultime a caratterizzare le opere perchè il recupero di Torresin avviene solo sul piano concettuale e non su quello del ready made, cioè dell’oggetto preesistente che viene assunto nello spazio artistico e, conseguentemente, manipolato. Non si tratta di tavoli decontestualizzati e rielaborati, di tavoli “addobbati” ad arte e spostati di senso, bensì di tavoli progettati e costruiti ex novo, sempre calati su un versante antropomorfo e sul fondamento di un luogo fisico e mentale. Al primo caso, infatti, legata la determinazione di uno spazio concreto e fisicamente circoscritto, che in qualche modo si erge a visibile “contenitore” del circuito energetico prodotto dalla forza simbolica e dal peso concettuale del lavoro, la cui parte centrale ruota attorno all’idea di tavolo come luogo di convivio, di incontro, perchè no, di scontro ma anche di riflessione, scrittura, progettazione e, non da ultimo, come tavolo sul quale si consuma, ci si ciba, magari seguendo specifici rituali che sublimano la necessità fisiologica conducendola nuovamente sul fronte del dialogo e del rapporto interpersonale. Qualità alle quali rimanda l’oggetto stesso: il piano del tavolo è una sorta di diaframma tra due spazi fisici e temporali, che attiva le solarità sopra/sotto, presente/memorie antiche, luce/oscurità, quindi ciò che conosciamo e ciò che, invece, siamo soliti occultare, ignorare o custodire come angolo prezioso della nostra esistenza. Da qualche anno il tavolo è l’ “ossessione” di Giovanna Torresin, ossessione che l’ha condotta alla produzione di tavoli diversi: cupi e misteriosi, quasi si trattasse di altari per messe nere o per fugaci incontri sado-maso, tavoli dalla materia ruvida e apparentemente vischiosa, che conducono un osservatore in profondi pozzi-mammelle oscurati dal mistero di un allattamento per adulti; tavoli dalle estremità antropomorfe, metamorfizzate in zampe di giraffa, in scarpe sanguinolente o in artigli puntuti alternati a una mamba-manichino che, per associazione mentale, trasla il cassetto aperto in sesso femminile. Se fin qui il tavolo assumeva su di sè una estizione, negli ultimi lavori la ricerca la conduce alla spoliazione, a un processo di sintesi, di introspezione e destrutturazione. A livello formale un oggetto perde la visceralità materica, al dominio della curva succede quello dell’angolo retto; in luogo degli oggetti addizionati al tavolo assistiamo allo sprofondamento di segni e materiali (conchiglie, cera, uova di =lastica e disegni di simbologie sessuali) all’interno del suo corpo portante, spesso ribaltato a terra o steso a muro, a volte in plexiglas trasparente, oppure tutto bianco o nero. Sono tavoli “più freddi”, più cerebrali che però attivano il ricordo del precedente trasporto emozionale in piccoli dettagli: nel sesso di un uovo aperto o nel sottile strato di epidermide bianca conservata come una reliquia all’interno del piano di un tavolo. Tavolo destrutturato, privato di due sostegni, appoggiato a terra come fosse un contenitore autoportante, tavolo di cui ormai palpita solo il lontano archetipo.
Sabrina Zannier – Il Messaggero Veneto
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Fixation with an entity, an idea, an object leads to repetition andeventually to obsession. However, when this progression is an artist’s basefor exploration, it never becomes repetitive: obsession is the threadrunning through a subtle metamorphosis in progress. The works by GiovannaTorresin, who lives and works in Lombardy, recently exhibited at StudioTommaseo in Trieste, are the embodiment of this particular obsession with aspecific object – a table – revisited in its everyday identity and itsmanifold symbolic meanings. These symbolic values are the distinguishingfeature of Torresin’s works, since her interpretation is only conceptual andnot about a ready-made object, i.e. an existing object relocated into theworld of art to be manipulated.Her tables are not de-contextualised and then reinterpreted, they are notskilfully ‘dressed up’ and deprived of their original significance. On thecontrary, they are designed and built from scratch, always set in ananthropomorphic dimension and in a physical and mental space. The formerspace, in fact, originates from the definition of a physically bounded reallocation, which somehow becomes a visible ‘container’ of the energy circuitgenerated by the symbolic force and conceptual weight of the work, while themental dimension turns around the notion of a table as being somewhere toshare, meet up and – why not? – argue, but also think, write, plan and -last but not least – somewhere to eat, feed, maybe following well-definedrituals to sublimate one’s physiologic need and bring again to the fore thelevel of dialogue and personal relations. This dualism pertains to theobject itself: the top of a table is a kind of diaphragm between twophysical and temporal spaces, defining the polarity of up/down, presenttime/old memories, light/obscurity, i.e. the known and the unknown, what weusually hide, ignore or jealously guard as a precious part of our life.The table has been an ‘obsession’ for Giovanna Torresin for some years now.This obsession of hers has produced different results: dark and mysterioustables, looking like altars for black Masses or for short-livedsadomasochist encounters; rough and sticky-looking tables leading thebeholder down through deep wells shaped like breasts into the dark mysteryof breast-feeding for adults; tables with anthropomorphic legs, camouflagedas a giraffe’s hoofs, or as shoes covered in blood, or as sharp clawsalternating with a dummy’s leg which, by mental association, turns the opendrawer into a female organ.While her tables used to be ‘dressed up’ before now, research for her latestworks has taken the artist to stripping, to a process of synthesis,introspection and deconstruction. At a formal level, the object loses itsown material visceral nature, and right angles take the lead over curvedlines. In the place of objects added to the table, we can see signs andmaterials (shells, wax, plastic eggs and patterns of sexual symbols)collapse into their own bearing frame, which is often turned upside down onthe floor or on the wall, sometimes made of see-through Plexiglas, orotherwise all white or black. These tables are ‘colder’, more cerebral, butsome small details retrieve the memory of previous emotional fits: the sexof a split-up egg, a thin layer of white skin preserved like a relic withinthe top of a table. A deconstructed table, deprived of two supports, lyingon the floor as if it were a self-bearing container; a table of which only aremote archetype still throbs on.
Sabrina Zannier – Il Messaggero Veneto