Giovanna Torresin è stata per me una recente scoperta. Di lei conoscevo soltanto un’opera, l’immagine, fortissima nell’iconografia e nei contenuti, di una donna trapassata da un tavolo; era un’immagine che ogni tanto mi rieccheggiava nella memoria, ma non avevo idea che la sua creatrice abitasse e lavorasse a pochi passi: a Lomagna. Quando il suo universo mi si è mostrato interamente non ho avuto dubbi: la Torresin è un’artista straordinaria, potente nel pensiero e nel modo in cui sa renderlo visibile, in modo originale, intenso, spigoloso, a tratti perfino sgradevole allo sguardo, come a volte l’arte deve saper essere. Parlare con lei è stata una conferma. Non c’è alcun compiacimento, alcuna volontà di “sfruttare argomenti facili”, di cavalcare onde, nell’atto creativo di Giovanna Torresin. La donna, certo, la debolezza del suo corpo e la forza del suo spirito: ma non è tutto. Quei corpi martoriati, feriti, aperti, quelle atmosfere cupe e angoscianti, quelle immagini a tratti insostenibili non si riferiscono solo alla condizione femminile – sarebbe troppo semplice, persino banale – sono piuttosto il racconto della dimensione quotidiana di un’umanità che impone a se stessa ritmi e consuetudini che finiscono per imprigionarla. Protagonista dell’opera della Torresin non è, dunque, solo la donna, come potrebbe sembrare a un primo sguardo, ma l’Uomo nel senso più ampio del termine, il corpo, declinato nelle sue molteplici sfumature, fino a raggiungere la forma indefinita e indefinibile dell’ibrido. Sono, dunque, opere più vicine al lavoro di Matthew Barney, Marc Quinn o Cindy Sherman che alla solita, talvolta ormai vuota di significati, ricerca sul femminile. E proprio come gli artisti citati, la Torresin usa anche, e soprattutto, se stessa – il proprio corpo, il proprio volto – come strumento espressivo.
Si fa fotografare, trasforma la propria identità in altre mille identità, senza timore di mostrarsi (mostrarsi: non esibirsi, sia chiaro) e di mettersi in gioco, arrivando a esiti lontani tanto dalla body art quanto dalla performance, realizzando opere che, in fin dei conti, sono oggetti “da parete”, quasi dipinti su tela del contemporaneo. Si pensi, ad esempio, al ciclo delle Vergini con il Bambino, nel quale le Madonne della tradizione pittorica rinascimentale assumono un nuovo volto, si nascondono dietro maschere di ferro, prendono i tratti dell’artista, dando vita a immagini di forte impatto, agghiaccianti nel loro invito a una riflessione sul rapporto madre-figlio, ma anche sulla possibile eredità dei maestri del passato e sul senso della religione e della sua iconografia. Ma si pensi anche a lavori forse meno espliciti ma altrettanto dirompenti, come la serie delle armature, o dovremmo dire dei corpi-armatura, corpi che si fondono con il ferro, diventando una nuova materia, in bilico tra uomo e automa, unione di caldo e freddo, movimento e immobilità, vita e morte. Tutto ha inizio dalle installazioni dei primi anni Novanta, opere in cui Giovanna dimostra già tutta il carattere della propria ricerca.
Da subito si impone il tema: la costrizione dell’esistenza di ogni giorno, la lacerante dicotomia tra l’apparente sicurezza delle abitudini e delle regole del sociale e l’affermazione del sé, della propria individualità. Un concetto che si manifesta nell’immagine del tavolo, oggetto quotidiano che nell’opera della Torresin smette di essere il solito “rassicurante” pezzo di arredo, per diventare l’emblema della difficoltà di rapportarsi con l’altro. Nella disperata ricerca di una via di fuga, il corpo si dibatte e si confronta con questa ossessiva presenza. Dalle installazioni alle foto il passo è breve. L’artista sceglie la fotografia perché le offre un mezzo consono a rendere visibile un’idea. Non c’è alcuna velleità da fotografo (anzi: gli scatti li fa realizzare su misura da altri), non c’è attenzione per la fotografia come linguaggio d’arte: essa è un mezzo – il mezzo ideale, direi – per rendere visibili i vertiginosi viaggi nel corpo e nell’esistenza intrapresi ogni giorno dalla Torresin. E possiamo ben comprendere perché Giovanna lavori da sola, in silenzio. “La solitudine”, osserva giustamente Fabrizio Boggiano in un suo scritto per l’artista, “conditio sine qua non per poter affrontare e portare avanti un’analisi tanto inesorabile del proprio io.
Servono lunghi tempi di riflessione. Serve il silenzio del mondo attorno. Serve fare il vuoto e l’ordine, quando il nostro tempo quotidiano è sempre troppo pieno e troppo caotico. Serve il coraggio di guardare in faccia le proprie paure”. Paure certo, segni del proprio passato, cicatrici che faticano a rimarginarsi: nelle sue opere, la Torresin mette tutta se stessa, i propri ricordi, il proprio vissuto. Eppure ciò che ne resta non è, a mio parere, solo un racconto autobiografico. È qualcosa che riguarda tutti. È qualcosa che riguarda il corpo. Che riguarda l’Uomo.
Simona Bartolena
Qui già oltre – Brianza terra d’artisti
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HERE AND BEYOND
I have come across Giovanna Torresin’s artwork quite recently. I had only seen one of her artworks before: it was the image of a woman transfigured by a table. That image had stuck in my memory but I had no idea that its creator lived and worked nearby, in the Lomagna area. After discovering her universe in its entirety, I was left with the certainty that Giovanna Torresin is an extraordinary artist endowed with a powerful imagery that she is able to turn into original, intense and sometimes uncomfortable images.
There isn’t any form of complacency or any desire to exploit mainstream or trendy arguments in her work. The image of the woman as the feminine archetype and the relationship between body and soul are at the centre of it, but this is not all that there is to see. Those disfigured bodies, the dark atmosphere and the harsh images that the artist often uses are not only a caption of the feminine universe, but also – even mainly – a description of the entire humankind’s condition, imprisoned by its own rituals, traditions and artificial rhythms. At the centre of Giovanna Torresin’s work there is a research around human beings without any distinction between genders. It is a quest similar to those of Matthew Barney, Marc Quinn or Cindy Sherman, in that they also use their bodies as a means of expression.
Giovanna Torresin uses the support of photography to capture images of herself and create several new identities with results that go far beyond those reached in contemporary art by body art or performances. Her artwork is more similar to a painting whose content is a description of our contemporary age.
In the series “Vergini con bambino” ( The Virgin Mary and the holy child )the artist has given a new identity to the Madonna of the Reneissance tradition using a juxtaposition of her traits and adding sets of armor to create very strong visual effects and lead the viewer to a reflection around complex topics such as the relationship between mother and child, the heritage of the great masters and the significance of religion and iconography.
Similar but less explicit reserach can be found in some of the artist’s previous works like the series of images of the body-armor, where bodies and iron are melted together to create a new figure that is partly human and partly automaton and highlight the contrast between cold/hot, movement/stillness, life/death.
This type of quest originated during the 1990s and revolved around the idea of the artist being trapped in her everyday existence and the dichotomy between the apparent safety of our societal rules and traditions and the needs of the individual. The artist expresses these ideas using a common piece of furniture, a table, to represent the difficulty inscribed into human relationships. She shows us her body imprisoned and transfigured by a table in the desperate effort to fight against it and regain her freedom.
Giovanna Torresin uses photography as her favourite support to make her visions and ideas visible. She works on her own to develop her creative process and relies on the intervention of professional photographers only when her creative process is finished and can be put into images. Working alone is the condition “sine qua non” (essential condition through which) the artist carries out such a formidabile and profound analysis of herself.
Concentation and silence are needed. Calmness and organization are necessary to be able to face our fears and escape our confusing and distracting routine. Giovanna Torresin tells us about her fears, her traumas and her life experiences. What remains is not only a biographic account, but also a story that relates to every human being. It is the universal representation of humankind.
Simona Bartolena