DALLA POETICA DELL’INNESTO A UN NUOVO PROFILO IDENTITARIO – Sabrina Zanier –

Poetica dell’innesto: così potremmo intitolare l’intero lavoro di Giovanna Torresin, alludendo a quell’immaginario collettivo plasmato dalle ricerche dell’ingegneria genetica che, spingendosi fino al concetto di clonazione, sollecitano su più fronti la creatività degli artisti. Ma la speculazione scientifica rappresenta solo un lontano orizzonte di riferimento, dal quale pulsa l’anima di un nuovo profilo identitario, connotato dalle più svariate sfaccettature. E’ sufficiente osservare il corpus di lavori presentato in questa mostra per rintracciarne una particolarità. Busti e calchi corporei ammiccano al classicismo scultoreo, se non fosse per l’inserimento di frammenti oggettuali, quegli spigoli di tavolo in alcuni casi proposti quasi nella loro totalità; fotografie si appellano al digitale per mettere in scena suggestive e improbabili ibridazioni fra organico e inorganico; miriadi di omuncoli reiterano, attraverso il ricorso alla modularità, la poetica sopraccennata, alimentata dalla volontà di sconfinare oltre i limiti del possibile.

Di primo acchito, quindi, il lavoro di Torresin s’inscrive entro il registro di quelle ricerche contemporanee che puntano il dito sull’ampliamento dell’idea del sé, per di più soppesandola a partire da un’indubbia trama autobiografica. Al di là di questo blando riferimento, però, è necessario, se non addirittura doveroso, rintracciare le radici di tutto il lavoro, ossia individuare le intenzionalità che l’artista tesse quale trama portante dell’intera ricerca, per cogliere in profondità l’aspetto singolare della sua opera.
Quella che definisco come “poetica dell’innesto” già mi appariva qualche anno fa, quando per la prima volta mi avvicinavo all’opera di Giovanna Torresin, presagendo una continuità di attenzione perché sollecitata da stimoli che affascinavano il mio interesse professionale e la mia sensibilità umana. Andando a ritroso nel tempo, con la memoria ai lavori datati a partire dal 1994, ai discorsi a suo tempo affrontati, alle mie prime riflessioni in merito, nonché alla visita allo studio di Lomagna, ne nasce una sorta di diario d’artista. Diario che traccia le pagine di una creatività in fermento, lungo la via di un’ossessione radicata attorno a un formalismo oggettuale – quello del tavolo -, recuperato nella sua identità quotidiana e nella sua pluridirezionale valenza simbolica.

Tavoli cupi e misteriosi, quasi si trattasse di altari per messe nere o per fugaci incontri sadomaso; tavoli dalla materia ruvida e apparentemente vischiosa, che conducono l’osservatore in profondi pozzi-mammelle oscurati dal mistero di un allattamento per adulti; tavoli dalle estremità antropomorfe, metamorfizzate in zampe di giraffa, in scarpe sanguinolente o in artigli puntuti alternati a una gamba-manichino che, per associazione mentale, trasla il cassetto aperto in sesso femminile. Non si tratta, però, di un ready made, di un oggetto preesistente che viene assunto nello spazio artistico e conseguentemente manipolato. Torresin aziona un recupero che avviene solo sul piano concettuale. Ciò che importa, infatti, è l’idea del tavolo in quanto oggetto inanimato che viene progettato e costruito ex novo, decontestualizzato e rielaborato, “addobbato” ad arte e spostato di senso, calato su un versante antropomorfo e sul fondamento di un luogo, fisico e mentale.
Già i primi tavoli azionano il principio della dualità, di una contrapposizione binaria che si erge a fondamento anche dei lavori successivi. Il piano del tavolo è concepito come una sorta di diaframma tra due spazi fisici e temporali, che attiva le polarità sopra/sotto, presente/memorie antiche, luce/oscurità, quindi ciò che conosciamo e ciò che, invece, siamo soliti occultare, ignorare o custodire come angolo prezioso della nostra esistenza. Tale dualismo si afferma inizialmente sotto il segno della separatezza in quelli che amo definire “tavoli della tortura o dell’impossibilità”. Basti pensare ai piatti capovolti o al “Convivio”, dove i piatti sono imbullonati e le posate ammanettate o, ancora, al “Coperto per due”, i cui bicchieri, piatti, posate e bottiglie sono rinchiusi in singole confezioni di pelle nera e incernierati: negazione dell’atto di cibarsi, quindi di una delle funzioni del tavolo stesso, nonché del relativo cerimoniale legato all’incontro e al dialogo; alle gambe-zampe, che sembrano immerse nella cupa incrostazione di un fondo marino, al quale simbolicamente alludono anche i tappi con catenella da vasca o lavabo: vi si legge l’impossibilità di affondare negli abissi (dell’anima, del corpo…?!).
La separatezza che indica l’impossibilità dell’incontro sottende la difficoltà di unire in simbiosi organico e inorganico. I due aspetti, rappresentati da elementi animali o dal sotteso riferimento alle azioni umane, e dal tavolo, sono infatti “caricati” nelle loro specifiche peculiarità, ossia ancora poco propensi a fondersi con l’altro da sé. Ma nel “Tavolo con brocche”, il fluido rosso rovesciato nelle gambe fino al raggiungimento delle scarpe sottostanti, già annuncia un aspetto organico – quello del flusso sanguigno – più sottile, non necessariamente legato a una specifica forma, piuttosto identificato in una sostanza che ha il potere di attutire la freddezza del plexiglass come parte integrante del suo stesso formalismo. In “Abbeveratoio”, inoltre, questo materiale sostituisce completamente l’aspetto cupo del nero e delle “incrostazioni”, aggiungendo alla trasparenza il candore delle mammelle che, con la loro riproduzione speculare annullano il concetto di separatezza ascrivibile al piano del tavolo, contenendo in nuce quella volontà di superare le barriere del finito, alla quale Torresin darà ampio sviluppo con le fotografie digitali.

Se fin qui il tavolo assumeva su di sé una sorta di vestizione, nei lavori successivi, ossia nei “Tavoli sedimentati”, assistiamo a una spoliazione, a un processo di sintesi, di introspezione e destrutturazione. A livello formale l’oggetto perde la visceralità materica, al dominio della curva succede quello dell’angolo retto; in luogo degli oggetti addizionati al tavolo assistiamo allo sprofondamento di segni e materiali (conchiglie, cera, uova di plastica e disegni di simbologie sessuali) all’interno del suo corpo portante, spesso ribaltato a terra o steso a muro, a volte in plexiglass trasparente, oppure tutto bianco o nero. Sono tavoli più freddi, più cerebrali, che però attivano il ricordo del precedente trasporto emozionale in piccoli dettagli: nel sesso di un uovo aperto o nel sottile strato di epidermide bianca conservata come una reliquia. Il tavolo si apre, si alleggerisce, si fa corpo disteso la cui pelle ammicca al tatto pur inscrivendosi nel minimalismo della geometria.
Per quanto si tratti di lavori in sé compiuti, complessivamente rappresentano un’importante fase di passaggio tesa al compimento di quell’ossessione verso l’ibridazione, di cui il tavolo rappresenta ormai solo un pretesto per affrontare la problematica della nuova identità umana.

Prima di con-fondere organico e inorganico, corpo umano e oggetto, attraverso l’esperienza dei “Tavoli sedimentati” Torresin scompone entrambi per sondare le loro singole peculiarità. Mentre prima apparivano caricate al punto da non potersi fondere, ora appaiono decantate, tanto che l’organicità (calchi di denti e loro impronte sul tavolo-gengiva, falli e vagine riprodotti in disegni di natura fumettistica) sembra nascere dall’inorganico, diventa sua parte integrante annunciando le successive simbiosi.
Il raggiungimento di questa nuova dimensione, dove l’ossessione per l’ibridazione trova già un suo compimento, sfocia poi in due direzioni diverse, ma accomunate da una piacevolezza sensoriale prima occultata dall’aspetto più aggressivo insito nei riferimenti sado-maso. Con il lavoro intitolato “Pelle e scarti” si annulla completamente la rigidezza del tavolo, oggetto che ormai sopravvive solo come archetipo concettuale: fattosi di morbido lattice, assume l’aspetto di una ammiccante epidermide. Con l’opera “Sei sculture tragiche”, invece, dove una teoria di gambe di tavoli appaiono a parete come altro da sé (potrebbero essere colonne di architetture tunisine, dolciumi da Luna Park…) l’artista sdrammatizza l’aspetto cupo di altri lavori, così come la dimensione più concettuale e lascia scaturire il ludismo e l’ironia che corrono sotterranee in tutta la sua ricerca.

Arriviamo, così, all’ultima produzione, memori di tutta una serie di attraversamenti, di volta in volta mai negati bensì integrati, quasi vi fosse una vera e propria adozione del principio dell’ibridazione anche per quanto concerne il processo creativo e produttivo, oltre che ideativo.
Quella sorta di “raffreddamento” che aveva condotto Torresin al minimalismo formale, così come la visceralità concentrata prima nella rappresentazione di dettagli organici, poi nell’utilizzo di materie calde, come il lattice e le resine, ora si versano sul fronte delle scelte relative alla tecnologia produttiva. Da un lato l’artista utilizza la macchina fotografica, che già di per sé presuppone una presa di distanza dall’oggetto e dalla materia; per poi scannerizzare l’immagine e guidare la sua digitalizzazione al computer.

Dall’altro lato, persevera nella manualità diretta, apprestandosi alla produzione di calchi e di sculturine come la miriade di omuncoli, che rinnovano la tradizione scultorea ibridandola con il concetto di installazione. In ogni caso è il corpo dell’artista a entrare nell’opera: è sempre Giovanna Torresin a prestare la propria figura per statue come la “Maternità”, dove gioca il doppio ruolo madre-figlia, o come quella che si rifà ai kouros dell’antichità, dove il richiamo al classicismo anima il tipico sorriso di allora con una sottile vena d’ironia.
Del tavolo sono rimasti gli spigoli, qualche gamba e frammenti di piani, che ora attraversano il corpo, dopo che l’artista ha ribaltato la proporzione dell’ibridazione: ad avere la meglio non è più l’oggetto bensì il soggetto, meticciato e ambiguo, reduce da una complessa mutazione attuata dalla poetica dell’innesto. Dalla fusione tra la rinnovata piacevolezza fabbrile e il sapore tecnologico del digitale, l’organicità si è rigenerata per dar corpo a una nuova identità umana.

Silvy Bassanese Arte Contemporanea – Biella

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Poetics of the grafting: that’s how the whole work of Giovanna Torresin could be titled, thus hinting at that collective imaginary, moulded by genetic engineering researches that venturing up to the concept of cloning, spur from more fronts artist creativity. But scientific speculation just represents a far reference horizon, from which pulses the soul of a new identity profile, characterised by different aspects. It is enough to observe the “corpus” of the works presented in this exhibition to identity a particular feature in them. Busts and body casts, beckon at sculptural classicism, if it weren’t for the insertion of pieces of objects. Corners proposed, in some cases, almost in their wholeness; photographs calling on digital technique, to perform suggestive and improbable hybridisation between organic and inorganic; thousand of tiny men reiterate, referring to their modularity, to above mentioned poetics, supplied by the will to go beyond the limits of what is possible.

At a first sight therefore, the work of Torresin inscribes within the registry of those contemporary researches, that focus on the widening of the idea “per se”, furthermore considering it starting from a undoubted autobiographic plot. Beyond this mere reference, it is anyway necessary, when not due, to track back to the roots of the whole work, that is to detect the intentions, that the artist loops as a supporting net for the whole research, to find out, into deep, the singular aspect of her work.

What I define “poetics of the grafting” appeared to me already some years ago, when, for the first time, I approached the work of Giovanna Torresin, feeling a continuity in attention, being spurred by stimulus that fascinated my professional interest and my human sensibility. Going back in time, recalling the works dated starting from 1994, to the arguments afforded at that time, to my first reflections on that context, and to the visit to her study in Lomagna, a kind of diary of the artist arises. A diary which tracks the pages of a developing creativity, along the path of an obsession, rooted on an object-formalism – that of the table -, recovered in its daily identity and in its multi-direction symbolic value.

Dark and mysterious tables, as if they were altars for black masses or for fleeting sadomasochistic meetings; table made of rough and apparently viscid matter, that lead the observer to deep mamma-dwells, darkened by the mystery of an adult lactation; tables with anthropomorphic ends, turned into giraffe’s legs, in bleeding shoes or in pointed claws alternated to a doll’s leg that, as for mental association, transforms the open drawer into female sex. But it’s not a “ready made” of an already existing object that is assumed in the artistic space and consequently manipulated. Torresin operates a recovery which occurs only on a conceptual level.

What matters, in fact, is the idea of table as inanimate object designed and built a-new, removed from its original context and re-elaborated, “decorated” at art and moved from its real sense, transferred at an anthropomorphic level and at the foundation of a place, both physical and mental.
Her first tables already activate the principle of dualism, of binary confrontation which stands as foundation also for further works. The table plan is conceived as a kind of diaphragm between two physical and temporal spaces, that activate the polarities above/under, present/ancient memories, light/darkness. Therefore, what we know and what we are instead used to hide, ignore or safe as precious corner of our existence. This dualism asserts itself, at first, under the sign of separation of those that I love to define “torture or impossibility tables”. It is enough to think at the plates turned upside down or to “Convivio” where the plates are fixed with bolts and the cutlery is handcuffed or, even better, to “Coperto per due” (Table for two) where glasses, plates, cutlery and bottles are closed into single black leather packages and hinged: denial of the nourishing act. Therefore denial of function of the table itself, and of the related ceremony bound to meeting and to dialogue; just think at the human legs – animal legs, that seems to be sunk in the dark encrusting of the sea-depth, to which symbolically also refer the wash-basin, bathtub taps with chain; there can be read the impossibility to sink into the abyss (of the soul, of the body…?!).
The separation which indicates the impossibility of the meeting, indicates the difficulty to unite in a symbiosis organic and inorganic. The two aspects represented by animal elements or by the subtended reference to human action and by the table, are in fact “loaded” with their specific features, that is, still not ready to mould with what’s different from themselves. But in “Tavolo con brocche” (Table with jugs), the red liquid poured into the legs until reaching the underlying shoes, already states an organic aspect – that of the blood flow – more subtle, not necessarily bound to a specific shape, but rather identified with a substance that has the power to dampen the coolness of plexiglass, as fundamental component of its same formalism.
Furthermore in “Abbeveratoio” (Drinking-through) this material completely replaces the dark aspect of the black and of the crusting, adding to transparency the whiteness of the mammas, that with their mirror reproduction cancel the idea of separation, that can be attributed to the table plan, containing in itself the will to overcome the barriers of what’s finished, concept that Torresin will further widen with digital photos.

If until now the table assumed on itself a kind of dressing, in the following works, that is in “Tavoli sedimentati” (Sedimentated tables) we can witness a stripping, a synthesis process, a process of introspection and de-structuring. At a formal level the object loses its material viscerality, the dome of the curve replaces that of the right corner; instead of objects added on the table, materials and signs sink (shells, wax, plastic eggs and sexual symbols drawings) within its carrying body, often turned upside down on the floor or laid on the wall, sometimes in transparent plexiglass, or all black and white. These are “cooler” tables, more cerebral, that anyway activate through tiny details the recall of the previous emotional transport: in the sex of an open egg or in the subtle layer of white skin stored as a relic. The table opens, gets lighter, becomes a laying body which skins beckons the touch thus inscribing in the geometry minimalism.

Even if these are finished works “in se”, they represent, as a whole, an important passage phase aiming at the completion of that obsession toward hybridation, where the table just represents an excurse to afford the problems of the new human identity.

Before confusing organic and inorganic, human body and object, through the experience of Tavoli sedimentati (Sedimented tables), Torresin disassembles both to retrieve their individual features. While before they looked like overloaded at a point they could not be moulded, now they look cleared, at a point that the organic aspect (teeth casts and their tracks on the tablegum, phalluses and vaginas reproduced in comics-like drawings) seems to arise from inorganic, becoming part of it and announcing subsequent symbioses.

The reaching of this new dimension, where the obsession for hybridation, already, finds its completion, flows then in two directions, different through united by a sensorial pleasure, that before was hidden by the more aggressive aspect inscribed in the sadomasochistic references.
With the work titled Pelle e Scarti (Skin and Wastes) the rigidity of the table, an object that only survives as conceptual archetype, is completely cancelled now: it is made of soft latex, and assumes the aspect of a winking skin. With the work “Sei sculture tragiche” (Six tragic sculptures) instead, where a range of table legs appear on the wall as something detached (as columns of Tunisinian architectures, or sweets in a fun-fair) the artist plays down the dark aspect of the other works and the more conceptual dimension, and let freely flow the play-aspect and the irony that run underground in all her researches.
We arrive at the last production mindful of a series of crossings, never denied through integrated as if there were a real adoption of hybridation principle, also as concerns the creative and productive process, apart from the ideational one.

That kind of “cooling” that lead Torresin to formal minimalism, so as viscerality concentrated at first in the representation of organic details and then in the use of warm materials, such as latex and resins, now flows towards the choices related to productive technology. On one hand the artist uses the camera, that already for itself, supposes a shot at a distance from the object and from the matter; to scan subsequently the image, and guide its computer aided digitalisation. On the other hand she persists in direct dexterity, preparing for the production of casts and little sculptures such as the thousand of tiny men, that renew the sculptural tradition, mixing it with the idea of installation. In any case it is the body of the artist that enters in the work; it is always Giovanna Torresin to lend her figure for statues such as the Maternità (Maternity), where she plays the double role mother-child, or such as the one that refers to kouros in ancient times, where the recall to classicism animates the typical smile of the age with a subtle irony.

What remains of the table are the edges, some legs and fragments of plans, that now cross the body, after the artist turned the proportion of hybridation upside-down: what comes off better is no more the object, but the subject, mongrel and ambiguous, survivor from a complex mutilation performed by the poetics of the grafting. From the fusion between renewed feverish pleasure and the technological taste for the digital, the organic aspect regenerated to embody a new human identity.

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